La mia rubrica “eroi silenziosi” si arricchisce di una nuova incredibile storia. Non è piacevole aggiornare questa rubrica, perchè significa che si allunga la lista delle storie di persone dimenticate, nonostante il loro importante lavoro e il loro fondamentale contributo alla storia e alla ricerca. La collocazione storica è sempre la stessa: secolo scorso, in tempo di Unione Sovietica. Lo scenario è sempre lo stesso: incidenti incredibili e censura sovietica.

Anatolij Bugorskij nacque in Unione Sovietica il 25 Giugno 1942, in quello che oggi è denominato Oblast di Orel, nell’estremo Ovest della Russia. Laureatosi in ingegneria fisica a Mosca, trovò impiego come ricercatore presso l’Istituto di Fisica delle Alte Energie di Protvino e, nello specifico, lavorava presso il più grande acceleratore di protoni dell’URSS: il sincrotone U-70.

Il suo nome non è noto quasi a nessuno e di certo non lo era mai stato fino a quel 13 Luglio 1978, quando si verificò un’avaria all’interno del tunnel dove veniva fatto passare un fascio di protoni ad alta energia. Anatolij seguì tutte le regole di sicurezza e prima di avviarsi all’interno del tunnel, avvisò i tecnici dell’acceleratore di spegnere il fascio. L’intervento era previsto da lì a 5 minuti, ovvero il tempo che occorreva a Bugorskij per raggiungere il tunnel. Al suo arrivo all’imbocco del tunnel avrebbe dovuto trovare una lampadina rossa a segnalare il divieto di accesso e la porta bloccata come dispositivo di sicurezza per evitare accessi mentre il fascio di protoni era in funzione. Invece la porta era sbloccata e la lampadina spenta, segno che i colleghi avevano già proceduto allo sblocco dei dispostivi di sicurezza. Pertanto lui si mise al lavoro infilando la testa nel tunnel per riparare il guasto che era stato segnalato. Ma il destino talvolta è davvero beffardo e quel giorno si accanì proprio su Anatolij cambiandogli letteralmente la vita per un soffio di minuti. L’ingegner Bugorskij aveva impiegato meno di 5 minuti per raggiungere il tunnel. Questo i colleghi non potevano saperlo e quindi non avevano ancora disattivato il fascio di protoni. Lo stesso Bugorskij non poteva sapere che la lampadina rossa si era da poco bruciata ed era per questo che era spenta al suo arrivo. Inoltre, la porta era rimasta sbloccata, forse frutto di un’altra avaria. Così quando lui infilò la testa nel tunnel per mettersi al lavoro, fu attraversato da un fascio con un’energia pari a 76 ElettronVolt che passò attraverso la parte posteriore della sua testa, attraversandogli il lobo occipitale e il lobo temporale del cervello, l’orecchio sinistro, uscendo poi dal lato sinistro del naso. Ricorda di aver visto una luce fortissima, come quella di mille soli, ma di non avere sentito alcun dolore. Inoltre, si rese immediatamente conto della gravità della situazione, ma decise di portare a termine il suo lavoro e di non dire nulla a nessuno.

Durante la notte la parte sinistra del suo volto iniziò a gonfiarsi e pochi giorni dopo la pelle iniziò a staccarsi per effetto della bruciatura provocata dalle radiazioni. Tutte le ossa colpite dal fascio risultavano letteralmente bruciate, mostrando chiaramente il percorso del fascio di protoni. Lo stesso Anatolij dichiarò che i loro studi rivelavano che quel fascio emanava circa 1 Sievert al secondo. Il suo medico, molto allarmato, lo fece ricoverare presso l’ospedale nr6 di Mosca, specializzato in avvelenamenti da radiazioni. Ma entrambi sapevano che in quell’ospedale avrebbe solo potuto aspettare il sopraggiungere della morte, entro un paio di settimane. Così come fu, 8 anni dopo, per gli ingegneri della centrale nucleare di Chornobyl e per i pompieri intervenuti a spegnere l’incendio. Ricoverati nel medesimo ospedale e morti esattamente 15 giorni dopo l’esplosione del reattore 4.

Bugorskij invece non morì, contro ogni previsione medica e scientifica. Non solo, le sue funzioni cerebrali non subirono danni in conseguenza a questo incidente, tanto che 18 mesi dopo potè tornare al suo lavoro e riuscì anche a concludere il suo dottorato di ricerca, nel 1980. Va detto che non ne uscì completamente illeso. Tutta la parte sinistra del suo volto rimase paralizzata a causa della bruciatura di tutti i nervi. Rimase sordo dall’orecchio sinistro. E negli anni si presentarono anche gravi episodi di epilessia. Fino al 1991, anno della dissoluzione dell’URSS, venne sottoposto a controlli e ricerche specifiche condotte proprio nell’ospedale moscovita, al fine di studiare e monitorare gli effetti delle radiazioni sull’uomo.

Gli studi fatti sul suo caso non hanno portato a risposte certe sul perchè non sia morto. Con tutta probabilità, a salvargli la vita,  fu il fatto che il fascio aveva un diametro molto ridotto (circa 2×3 mm) e che grazie al quasi nullo potere frenante del cranio umano, il raggio, altamente radioattivo, gli attraversò la testa a grandissima velocità, danneggiando solo i tessuti e i nervi con i quali entrò in contatto.

L’ingegner Bugorskij non potè mai parlare di questo incidente a nessuno, proprio a causa della censura sovietica relativa a tutte le attività inerenti gli studi nucleari. Solo nel 1996, quando ormai questi episodi (barbaramente censurati) stavano venendo a galla, Anatolij decise di chiedere al governo russo di riconoscere il suo stato di disabilità, il che gli avrebbe permesso di ottenere gratuitamente i medicinali per curare l’epilessia. Questo status gli fu negato. Anzitutto perchè le disabilità conseguenti ad avvelenamento da radiazioni venivano riconosciute solo se avvenute dal 1986 in poi, ovvero solo dopo gli episodi di Chornobyl. E secondariamente perchè la censura sovietica era stata applicata anche sulla sua cartella clinica, il che dimostrava che lui non era rimasto vittima di un incidente “nucleare”. A causa di questo rifiuto e delle gravi condizioni economiche in cui si ritrova a vivere proprio per gli elevati costi che deve affrontare per curarsi, Anatolij si è più volte rivolto a istituti di ricerca medica nel mondo occidentale, ma il governo russo gli ha sempre vietato di lasciare il paese proprio per la sua condizione di “ex scienziato sovietico” e quindi delle sue specifiche conoscenze maturate nel settore del nucleare.

Mentre scrivo, mancano pochi giorni al suo settantanovesimo compleanno. La sua vita è stata dedicata interamente alla fisica e alla scienza. Nonostante avesse solo 36 anni all’epoca dell’incidente, non ha mai rinunciato al suo lavoro e al suo impegno nella ricerca e nello studio scientifico. Eppure nessun governo (sovietico prima e russo poi) gli ha riconosciuto il suo status di invalidità, come conseguenza del suo impegno al cospetto della ricerca e al servizio della Madre Patria. Persino il web non parla di lui in modo approfondito. Ho trovato un articolo che menziona il fatto che la parte di viso colpita dal fascio non sarebbe invecchiata, rimanendo come cicatrizzata, mentre la parte destra sì, dimostrando i 79 anni di vita vissuta. Ma non ho trovato fotografie o testimonianze concrete a supporto di questo articolo.

Tra le fotografie allegate trovate un articolo uscito su L’Unità il 6 Maggio 1994.