Occupandomi della storia di Chernobyl da tanti anni, ed avendone indagato i lati umani, tecnici, medici e le ripercussioni sulla vita sociale (non solo delle popolazioni del territorio), non ho potuto fare a meno di interessarmi anche della nostra Chernobyl italiana: il disastro di Seveso. I due eventi non sono affatto connessi, in alcun modo, nè geograficamente, nè temporalmente, ma sono assolutamente similari sotto tantissimi punti di vista.
 
Era il 10 Luglio 1976, un sabato pomeriggio, quando a Seveso, nella provincia che oggi è di Monza-Brianza, ma allora era di Milano, avvenne un incidente gravissimo nello stabilimento dell’industria chimica Icmesa. Tale incidente sprigionò nell’aria quantità elevatissime di tetracloruro-dibenzo-diossina. Il sistema di controllo di un reattore chimico destinato alla produzione di diversi diserbanti, andò in avaria e la temperatura salì oltre i limiti previsti. La causa prima fu probabilmente l’arresto volontario della lavorazione senza che fosse azionato il raffreddamento della massa, e quindi senza contrastare l’esotermicità della reazione, aggravato dal fatto che nel processo di produzione l’acidificazione del prodotto veniva fatta dopo la distillazione, e non prima.  Ciò che stava accadendo in quel sabato di Luglio nel Nord Italia non era mai successo prima nella storia, tant’è che non esistevano parametri rispetto al danno che questa diossina avrebbe causato su uomini, piante e animali.
Icmesa (Industrie Chimiche Meda Società Azionaria) era un’industria svizzera, con sede a Seveso che produceva diserbanti e funghicidi.
A poche ore dal disastro, i cittadini dei comuni di Meda, Seveso, Cesano Maderno, Limbiate e Desio si ritrovarono a fare i conti con un’aria irrespirabile, che provocava infiammazioni agli occhi. Oltre 240 persone furono colpite dalla Cloracne, una bruttissima “acne” sul volto, provocata dal cloro che era nell’aria. I bambini furono i più colpiti. Le piante si seccarono e gli animali, che vivevano nelle terre colpite, vennero abbattuti. Oltre 70mila animali furono abbattuti.
Tutto fu seppellito sotto metri di terra non contaminata, prelevata da aree pulite e il terreno stesso fu “ribaltato” e coperto con altrettanta terra non contaminata.
La zona fu divisa in tre aree: zona A, B e R. Queste zone erano inaccessibili e presidiate dall’esercito. La zona A fu la più colpita e pertanto evacuata. Le case furono abbattute e ai cittadini fu poi ricostruita una nuova casa altrove. Si trattava di 40 famiglie. Gli sfollati furono circa 670, che poterono poi tornare a vivere nelle proprie case, alla fine del 1977, al termine della bonifica effettuata nelle zone B e R. Negli anni si è poi scoperto che in queste aree la bonifica non fu fatta con la stessa scrupolosità dedicata all’area A e, anzi, si è assistito alla costruzione incontrollata di abitazioni civili. Tuttavia, in queste ultime due zone, vige il divieto di coltivazione di ortaggi e di allevamento di animali.
La stampa nazionale e le autorità locali ne diedero notizia solo otto giorni dopo l’accaduto. Nel frattempo, gli operai della Icmesa si stavano rifiutando di lavorare già da giorni, a causa dell’aria irrespirabile e dei malori che accusavano. Alcune auto, dotate di un altoparlante installato sul tettino, iniziarono a circolare nei dintorni della Icmesa, diffondendo un messaggio che avvisava di una imminente evacuazione.Tutti i mezzi utilizzati per la decontaminazione e le macerie delle case abbattute, furono depositate in due immense vasche di contenimento, su cui oggi sorge il parco naturale del Bosco delle Querce. Queste vasche sono a tutt’oggi costantemente monitorate per scongiurare una eventuale fuoriuscita da materiale contaminato.
In Italia, all’epoca dell’incidente, l’aborto non era ancora legale, tuttavia i medici lo consigliavano caldamente alle donne incinte. Tant’è che ottennero una deroga alla legge, dall’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. Molte donne decisero di interrompere la gravidanza e i feti furono spediti in una clinica in Germania per studiarne le eventuali anomalie. Ad oggi, nella popolazione locale si riscontrano problemi alla tiroide, sui nuovi nati, sei volte maggiori rispetto a persone che vivono in altre zone d’Italia. In relazione, invece, all’aumento dei tumori, nessuno studio medico-scientifico ha confermato questa tesi, ovvero che siano riconducibili alla diossina.
 
Dopo oltre quattro decenni ancora non si riesce a stilare un rendiconto preciso dei danni che questo evento provocò alla salute dell’uomo e del pianeta. Il disastro di Seveso è stato classificato all’ottavo posto nella classifica dei peggiori disastri ambientali della storia. Dietro a eventi come le guerre, i disastri nucleari di Chernobyl e Three Mile Island, il Lago di Aral e l’esplosione della petroliera Deepwater Horizon.
La Icmesa chiuse i battenti dopo quel disastro e oggi giace nelle vasche di contenimento, sotto al Bosco delle Querce.
La diossina è ancora presente in queste terre, ma non più preoccupante come allora. Tuttavia, permane il problema dei prodotti dell’orto. E’ vietato consumarli in modo esclusivo, ovvero vanno consumati di tanto in tanto perché nessuno studio scientifico riesce a garantire che il consumo costante non provochi danni alla salute, ancora oggi. Le vittime con danni fisici furono risarcite da Icmesa con una somma di denaro imposta dal giudice al termine del processo. A qualcuno fu riservata una piccola cifra di denaro a copertura dei danni “morali”, salvo poi essere richiesta indietro dopo trent’anni, quasi triplicata, dopo un ricorso avviato dalla stessa azienda. Dopo questo grave episodio, gli stati membri dell’Unione Europea, sentirono la necessità di “mappare” i siti industriali a rischio di disastro ambientale. Fu proprio dopo l’incidente di Seveso che si iniziò a parlare di danno ambientale e nacque la Direttiva Seveso (direttiva europea 82/501/CEE, recepita in Italia con il DPR 17 maggio 1988, n. 175 nella sua prima versione) che impone a tutti gli stati membri di identificare i siti a rischio di danno ambientale.
 
Qualche tempo dopo l’incidente, sul Corriere della Sera si leggeva:
“In questi mesi si vede crescere la rabbia degli sfollati, mentre sui media ci si interroga sulle responsabilità dei vertici Icmesa, sugli anni di silenzio e omertà circa i rischi per la salute dei lavoratori e degli abitanti della zona, nonostante numerosi allarmi fossero già stati presentati prima dell’incidente del 10 luglio 1976, dalle autorità sanitarie e in particolare veterinarie: «Una cosa è certa: dopo che è scoppiato il reattore e la nube ha tragicamente inquinato Seveso, Cesano Maderno, Meda e Desio, la memoria di molta gente si è rinfrescata. […] Seveso era altamente inquinata anche prima dello scoppio del reattore. La fabbrica emanava fumi ammorbanti e scaricava sostanze tossiche che provocarono la morte di numerosi animali e una serie di danni che l’Icmesa ha sempre cercato di risarcire ai cittadini in forma sbrigativa».”
Vi lascio un link dove potete trovare un’intervista a Stefania Senno, la bambina ritratta nella fotografia che fece il giro del mondo come simbolo del disastro. Nel video al link trovate anche la testimonianza molto forte di una delle tante famiglie “truffate” dagli eventi giudiziari di questi oltre quarant’anni. https://www.tvsvizzera.it/tvs/stefania-senno–la-bambina-simbolo-del-disastro-di-seveso/42890140
 
Giungendo al termine di questo articolo, siete ancora convinti che solo l’URSS e la centrale nucleare di Chernobyl siano sinonimo di mala gestione dell’emergenza e di disastro ambientale senza precedenti?! E che solo il triste episodio di Chernobyl sia associabile alla vergogna della corsa al potere ad ogni costo, anche pagando il caro prezzo di tante vite umane, irrimediabilmente compromesse dalla malattia?! 
(Le foto allegate a questo articolo non sono mie, per ovvie ragioni. Io non ero ancora nata. Sono state prese tutte dal web.)