L’architettura Sovietica è, a parere mio, estremamente affascinante. Non ho avuto modo di viaggiare in URSS perchè ero davvero molto giovane in quell’epoca, ma dal giorno in cui sono approdata nella zona di esclusione di Chernobyl sono entrata in contatto diretto con un museo a cielo aperto, forse l’unico luogo nel mondo dove non è arrivata la globalizzazione e il revisionismo storico. Sappiamo bene che in Ucraina, per anni, si è proceduto ad eliminare qualsiasi simbolismo che riportasse con la memoria al periodo sovietico, un pò come è stato per l’Italia dopo la caduta del fascismo. Ma l’architettura e l’urbanistica, quelle no, non si possono cancellare. E a Pripyat, ovviamente, tutto questo si palesa proprio come in un museo.

La prima cosa da specificare è che, in tempo di Unione Sovietica, le città vennero ideate in modo da disincentivare la proprietà privata e incentivare, invece, lo spazio pubblico. Per far fronte alla grande esplosione demografica del dopo guerra e per “accontentare” questa necessità di portare il popolo a frequentare il più possibile gli spazi pubblici, evitando che si richiudesse in casa, impedendo così al regime di potere esercitare il pieno controllo su di esso, si decise di costruire numerose unità abitative, di piccola metratura possibilmente con spazi in comune, tipo la cucina. Le abitazioni dovevano rappresentare semplicemente un tetto sotto il quale dormire, ma la vita doveva svolgersi al di fuori di queste mura. La socializzazione doveva avvenire all’aperto, sotto gli occhi di tutti e quando il turno in fabbrica finiva, il popolo sovietico non doveva avere una comoda e accogliente casa in cui rifugiarsi. Bensì semplicemente un dormitorio, che spingeva le persone a uscire di casa per avere spazi più ampi in cui incontrare amici e parenti. Tutte le unità abitative erano identiche e anche i palazzi esternamente. Tutti dello stesso grigio-cemento. Questo per non creare disuguaglianze e disparità. La casa veniva fornita gratuitamente dal Partito e rimaneva di sua proprietà. Non esisteva la proprietà privata, pertanto il Soviet aveva organizzato le abitazioni già arredate (tutte in modo uguale e con arredamento di modesta fattura) di modo tale che i cittadini dovevano trasferirvisi agilmente, spostando solo i beni di loro proprietà (abiti, gioielli e talvolta la televisione o la radio). Se il nucleo famigliare si allargava, gli veniva assegnato un appartamento con una stanza in più. Cosa che però non avveniva in tempi brevi, anzi. Il Partito impiegava decenni prima di assegnare altri appartamenti, nonostante la rapidità con la quale li costruiva, e così ci si ritrovava a vivere in 40/50 metri con anche gli sposi novelli e i nipoti.  Per questo motivo sulle cassette delle lettere si trovavano i numeri degli appartamenti e non i cognomi delle famiglie, proprio per non legare l’appartamento a una famiglia specifica. Pertanto quando si inviava una lettera in Unione Sovietica, si indicava semplicemente la via e il numero dell’appartamento, senza scrivere alcun nome. Io sinceramente lo trovo geniale come sistema. Oltre a garantire una privacy incredibile, perchè nessun nome sarà esposto è, soprattutto, pratico e veloce per i portalettere che dovranno semplicemente individuare un numero e non più cercare cognomi sulle cassette delle lettere. Ancora oggi questo sistema è utilizzato nei paesi dell’Est.

La storia dell’edilizia sovietica del secolo scorso, si divide in due periodi principali. Il periodo di Stalin e quello di Chruščëv, i quali si resero ideatori di due tipologie differenti di costruzioni.

Tra il 1930 e il 1950, sotto la direzione di Stalin, venne edificata la Stalinka. Si trattava di costruzioni di pregio, di ampia metratura e di ottima qualità. Le metrature erano davvero ampie: 50 m2  per il monolocale, 70 per il bilocale, 85 per il trilocale e 110 per un quadrilocale. Erano appartamenti destinati a persone di rilievo, che occupavano posizioni importanti nel Partito e godevano di notevoli privilegi. La Stalinka è un appartamento che, ancora oggi, risulta di prestigio e di grande valore.

Ma la vera rivoluzione edilizia e urbanistica arrivò sotto la direzione di Chruščëv, che fu segretario del Partito dal 1953 al 1964. Il suo obiettivo era quello di dare un alloggio a tutti i cittadini sovietici, uguale per tutti, e intendeva farlo anche in breve tempo. Era quindi necessario avviare un’edilizia di tipo popolare. Fu in questo periodo che nacque la Chruščëvka, ovvero gli edifici a cinque piani, costruiti con pannelli prefabbricati di basso costo. Queste costruzioni funzionavano perfettamente per il suo scopo. Costavano poco e potevano essere realizzate in tempi brevi. Così, a partire dall’inizio degli anni ’70, questa tecnica fu ampiamente utilizzata per la costruzione di palazzi a 9 e 12 piani e mantenuta tale fino alla dissoluzione dell’URSS. Chernobyl, essendo una cittadina più piccola e “vecchia” rispetto a Pripyat, è costituita principalmente da Chruščëvke. Pripyat, invece, quasi esclusivamente da palazzi da 12 piani.

La durata di queste costruzioni era stimata in 25 anni. Di fatti, nei progetti di Chruščëv, questi alloggi dovevano essere temporanei e nelle sue stime, entro i vent’anni preventivati, si sarebbe raggiunto l’obiettivo di una comunità comunista che avrebbe reso possibile costruire nuovi alloggi, più duraturi. La Chruščëvka, pertanto, doveva rappresentare solo un periodo di transizione, una costruzione “usa e getta” e, invece, sono ancora numerosissime nei paesi dell’ex blocco sovietico. A Mosca molte sono state demolite e sostituite con nuove costruzioni, mentre in altri paesi ex sovietici (tipo Polonia, Bielorussia, Repubblica Ceca) le cupe facciate grigie in cemento, sono state dipinte con colori sgargianti, al fine di abbellire almeno lo scenario urbano.

30 m2 (monolocale), 44 m2 (bilocale) e 60 m2 ( trilocale), queste erano le metrature a disposizione di queste costruzioni. Nei bagni era sempre presente la vasca da bagno e, proprio al fine di risparmiare spazio, ne furono ridotte le dimensioni a 120 cm di lunghezza creando quelle che io chiamo “vasche da bagno da seduti”. Mio nonno, nel suo appartamento di edilizia popolare italiana, ne aveva una proprio di queste piccole dimensioni, dove non ci si poteva sdraiare. La cucina era spesso in condivisione, oppure, se inclusa nell’appartamento, misurava circa 5 metri quadri. Agli occhi del resto del mondo questi palazzi apparivano brutti, cupi, gli appartamenti troppo piccoli e gli spazi in condivisione erano assolutamente inconcepibili per chi si affacciava a curiosare al di là della cortina di ferro. Eppure, il popolo sovietico si abituò in fretta a questi spazi e a questi “grigi”.

Nei tempi d’oro dell’URSS, circa 60 milioni di persone vivevano in questi prefabbricati. Questo tipo di costruzione, infatti, si prestava bene anche alla realizzazione di nuovi agglomerati urbani, nelle periferie delle grandi città e nelle campagne. Inoltre, fu adottato per costruire le città satellite che gravitavano intorno a una fabbrica, a una miniera di carbone o una centrale nucleare, come nel caso di Pripyat. Ovviamente il fatto di costruire nuovi insediamenti, significava mettere a disposizione dei cittadini tutti quei servizi che nelle immense campagne sovietiche non esistevano, quali scuole, palestre, market. E fu così che vennero creati i Microdistretti.

Il Microdistretto era una sorta di quartiere all’interno del quale il cittadino trovava tutti i servizi necessari alla vita quotidiana. Negozi di vario genere, scuole, asili, palestre, piscine, teatri, cinema, ospedali. Ogni Microdistretto era organizzato allo stesso modo e pertanto non ne esisteva uno migliore dell’altro. Questi quartieri sorgevano su una superficie di dimensioni tali da agevolare il raggiungimento di ogni punto estremo, semplicemente a piedi ed erano sempre connessi ad ampie strade che agevolavano il collegamento con le grandi città.

Pripyat era stata creata proprio su queste basi. Fu costruita interamente dal nulla, in un’area di pianura dove il terreno non rendeva coltivabile nulla. La centrale nucleare Lenin venne edificata nella zona del Polesie proprio per la sua “improduttività” e la sua vicinanza al mondo occidentale. L’obiettivo era quello di creare il più grande polo nucleare del mondo. Quindi Pripyat venne studiata e progettata a tavolino, come si suol dire. Si era già potuto verificare che il progetto di urbanistica ed edilizia sovietica funzionava a meraviglia, per quelli che erano gli scopi del Partito. La prima pietra fu posata il 4 Febbraio 1970. L’ultima porta, invece, fu chiusa il 27 Aprile 1986, nel momento in cui la popolazione venne evacuata a causa dell’incidente al blocco 4 della centrale nucleare. In sedici anni di vita, Pripyat era arrivata ad ospitare quasi 50mila persone. Erano stati costruiti 5 Microdistretti. Vantava un Palazzo della Cultura e un Luna Park unici nel loro genere, tanto da rappresentare una delle città più all’avanguardia dell’intera Unione Sovietica. Della bellezza di questa città vi ho parlato dettagliatamente in questo articolo nel mio blog: https://www.francescagorzanelli.it/chernobyl/pripyat-un-gioiello-citta/