Lui è Volodymyr Pryshchepa, classe 1955, ex vigile del fuoco, lei è sua moglie Holga, insieme vivono nel villaggio di Teremsy.
Loro sono “coloni”, ovvero persone che sono rientrate a vivere nella Zona di esclusione di Chernobyl, nonostante il divieto, ma non nella loro casa. Quando ci hanno accolto, stavano in effetti facendo dei lavori di ristrutturazione in quella che hanno scelto come loro dimora: una casa abbandonata.
Ricordo molto bene quel pomeriggio. Il caffè preparato da Holga. L’odore di vernice fresca, vernice impreziosita con brillantini. La casa pulita e finemente arredata, secondo le loro possibilità. Le tende di pizzo. Morbidi tappeti su cui mi sono accomodata, rigorosamente scalza, come usa da queste parti.
La storia di Volodymyr è una di quelle storie che vanno assolutamente raccontate e mai dimenticate.
Lavorava come pompiere alla stazione di Chernobyl e la sua brigata fu la prima ad intervenire per domare l’incendio al reattore 4, la notte del 26 Aprile 1986.
Partirono senza alcuna precauzione, solo con le divise d’ordinanza da pompiere. D’altronde si trattava di una chiamata per un incendio, nessuno poteva sospettare cosa realmente stesse accadendo e nessuno aveva dato diverse disposizioni in merito.
Mai avrebbero immaginato che si sarebbero ritrovati tutti esposti ad una nube radioattiva che avrebbe per sempre cambiato i loro destini e quelli delle loro famiglie.
La sua brigata era composta da sei vigili del fuoco e lui è uno dei due sopravvissuti.
Quattro suoi colleghi morirono per malattia da radiazioni acute, poco dopo essere stati ricoverati all’ospedale centrale di Sokolnika, a Mosca.
Nessuno si ricorda mai questi eroi, che trovarono sepoltura in bare speciali, nella lontana Mosca e lontani dai propri cari. Sì perchè non ci furono funerali per questi “grandi irradiati”, era troppo pericoloso avvicinarsi a corpi così contaminati e quindi venne presa la decisione, in tutta fretta, di “smaltirli” nel cemento armato, dentro bare di piombo, sotto metri e metri di terra.
Volodymyr è sopravvissuto, ma non senza sofferenze, passando da gravi malattie. Oggi è un testimone fondamentale di una grande tragedia che ha vissuto in prima persona. E’ un testimone prezioso che ha scritto una delle pagine più drammatiche della storia contemporanea. E’ un eroe silenzioso e dimenticato, che ha però salvato il mondo.

Volodymyr venne ricoverato a Mosca per malattia da radiazioni acute.
Il suo ricovero fu lungo e doloroso e racconta che l’unico rimedio al dolore era la vodka. Non c’era medicina che lenisse il dolore, o forse c’era ma non sapevano quale fosse. Mai, prima di allora, i medici si erano trovati ad affrontare problematiche simili e con così tanta affluenza di pazienti. La vodka per questi popoli è davvero un culto, e molto spesso le si attribuiscono qualità che in realtà non ha, ma aiuta! (Ammetto di aver provato in prima persona il suo effetto “riscaldante” durante certe giornate gelide dove non riesci a scaldarti nemmeno con mille coperte. La vodka ha funzionato in quei momenti!). E forse era anche una buona soluzione per non far ragionare il popolo in un momento così drammatico, gestito a suon di menzogne. Fu così che tanti di loro si ritrovarono alcoolizzati oltre che gravemente malati.
Racconta che in questo periodo perse la speranza e non vedeva via d’uscita da quella terribile situazione, così pregava Dio ogni giorno (questi popoli, di religione ortodossa, sono fortemente credenti e praticanti) e nelle sue preghiere promise che se Dio gli avesse salvato la vita, lui si sarebbe fatto prete, seguendo la strada del Signore come riconoscenza. Ma quando venne dimesso e recuperò il suo stato di salute, non ebbe più voglia di intraprendere la strada dello studio per farsi prete e nemmeno di sostenere tutti i sacrifici che ne sarebbero conseguiti. Non tornò mai più al suo ruolo di pompiere e ricevette dallo stato un indennizzo, come risarcimento per il suo operato e le sue sofferenze, il cui totale ammontava ad uno stipendio mensile, oltre ad una medaglia di eroe della Patria.
Racconta però che una notte gli apparve in sogno un messo di Dio che gli ricordò che aveva fatto una promessa e doveva mantenerla, così, dopo anni, decise di mantenere la parola data e iniziò gli studi per divenire Pope.
(Apro una necessaria parentesi: queste sono le parole di Volodymyr, probabilmente romanzate, probabilmente no. Io mi limito a riportare ciò che lui ci ha raccontato durante la visita a casa sua, senza alcuna aggiunta o interpretazione personale.)
Lo Stato, infine, gli ha permesso di prendere possesso di una delle case abbandonate nel villaggio di Teremsy, dandogli la possibilità di tenere messa in una piccola chiesa abbandonata, per quelle poche persone che vivono nei dintorni.

Oggi Volodymyr ha una sessantina d’anni, metà della sua vita è stata condizionata dall’esplosione alla centrale nucleare di Chernobyl. Anche lui è la rappresentazione vivente di ciò che significa il termine “resilienza”. Ognuna delle persone che ha scelto di tornare a vivere nella Zona di esclusione di Chernobyl, ha trovato il modo di re-inventarsi per sopravvivere al meglio ogni giorno. E ciò che posso dire io, per le esperienze che ho vissuto in queste terre, è che ognuno di loro è riuscito in questo intento. Io le trovo persone estremamente felici e serene, certo molto malinconiche e rassegnate quando parlano del loro vissuto, ma per nulla “vinte” dagli eventi.

18 Novembre 2020, purtroppo Volodymyr ci ha lasciati. La sua vita è stata accompagnata da atroci dolori causati dalle conseguenze del suo lavoro presso il reattore nucleare esploso. Ha combattuto contro un tumore al fegato con grandi metastasi, subendo due interventi e diversi cicli di chemioterapia, per metà della sua vita. I suoi parrocchiani lo ricordano come un uomo buono, sempre sorridente, che prima ha salvato vite umane come vigile del fuoco e dopo ha salvato anime come servo di Dio.

Il racconto della vedova di un vigile del fuoco, estratto da “Preghiera per Chernobyl” di S. Aleksievic:

“I primi giorni senza di lui avevo sonno, ho dormito per due giorni. Mi alzavo solo per prendere un po’ d’acqua. Prima di morire mi ha scritto: “Fai bruciare il mio corpo, non voglio che tu abbia paura”. Perché ha deciso così? Ho letto che la gente si aggira senza avvicinarsi alle tombe dei vigili del fuoco di Cernobyl morti negli ospedali di Mosca e sepolti nei dintorni, a Mytishi. Non seppelliscono accanto neanche i loro defunti, hanno paura perché nessuno sa cosa è Chernobyl. Ero seduta accanto a lui quando era appena morto. Improvvisamente ho visto una nuvola salire sopra il suo corpo. Era la sua anima. Nessuna l’ha vista, io invece sì. Ho avuto l’impressione che ci siamo rivisti un’altra volta… Chi me l’ha tolto? Per quale diritto? Hanno portato il precetto il 19 di ottobre 1986. Come se fosse la guerra…Non so come vivrò. Cosa mi ha salvato? Il nostro figlio. E’ ammalato. E’ già cresciuto, ma guarda il mondo con gli occhi felici di un bambino di 5 anni. Si trova nell’ospedale psichiatrico. Questa era la sentenza dei medici: per sopravvivere deve rimanere sempre lì. Ci vado ogni fine settimana. Mi chiede sempre: “Dove è il papà? Quando verrà?”. Chi altri me lo potrà mai chiedere? L’aspetta. Vivremo insieme con mio figlio. Io reciterò la mia preghiera di Chernobyl e lui guarderà il mondo con gli occhi da bambino.”