Desideravo da anni redigere un articolo dedicato al decommisioning di una centrale nucleare. Precisamente da quando, nell’Aprile 2015, visitai la centrale nucleare di Caorso (PC) e mi venne spiegato questo processo nei minimi dettagli. Negli anni a seguire ho affrontato l’argomento anche durante le mie numerose visite alla centrale nucleare di Chernobyl. Tuttavia, seppur ho ben chiaro ogni procedimento, non me la sono mai sentita di scriverne un articolo in quanto sono fermamente convinta che certe questioni tecniche vadano affrontate da chi ne ha specifici studi in merito. Ed ecco che finalmente ho trovato le persone giuste e posso passare a loro il testimone per questo delicato e importantissimo articolo.
Prima di addentrarci nella specificità del decommissioning, vi voglio però ricordare che in Italia queste operazioni sono affidate a Sogin (https://www.sogin.it/it). Nel sito potete trovare i dettagli di ogni singola centrale nucleare, con lo stato avanzamento lavori, il tempo previsto per il termine lavori, il numero di dipendenti impiegati e la quantità di scorie prodotte. Inoltre Sogin una volta all’anno (di solito ad Aprile) organizza un Open Day con visita guidata all’interno delle centrali nucleari italiane, con spiegazione dettagliata di tutte le attività a loro affidate. E’ una visita che vi consiglio vivamente, per fugare ogni dubbio in merito allo stato delle nostre centrali. Vi ricordo che ne abbiamo 4 sul suolo nazionale: Caorso (in provincia di Piacenza), Latina, Garigliano (nel comune di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta) e la Enrico Fermi (nel comune di Trino in provincia di Vercelli). Tutte queste centrali sono entrate in shut down dopo l’esito del referendum del 1987, a seguito dell’incidente accorso alla centrale nucleare di Chernobyl. Tra l’88 e il ’90 sono state “spente”, ma di fatto erano quasi tutte a fine vita, tranne quella di Caorso, che era la più giovane, entrata in funzione nel ’78, ovvero quattordici anni dopo le altre. Lo smantellamento delle centrali italiane è iniziato nel 1999 e giungerà a conclusione tra il 2026 e il 2031, per tutti e quattro gli impianti.
Il fatto che in Italia si sia deciso di eliminare il nucleare come fonte di produzione di energia elettrica, non significa che si sia smesso di approvvigionarsi in tal senso. Ad oggi l’Italia acquista circa un terzo del proprio fabbisogno dalle centrali nucleari francesi e da quella slovena di Krško.
«Il decommissioning di una centrale nucleare non è certamente un’operazione semplice, ma non richiede (se non in rari casi) tempi lunghissimi, ed è possibile portarlo a termine in maniera assolutamente sicura e restituendo il sito intatto alla natura.
La parola “decommissioning” in italiano viene tradotta sia con “dismissione” che con “smantellamento”, e in effetti il decommissioning di un impianto nucleare include entrambe le cose, anche se lo smantellamento è ovviamente la fase più delicata.
Esistono tre diverse strategie per portare a termine la dismissione e lo smantellamento di una centrale nucleare:
-lo smantellamento rapido
-il “safestore”
-il tombamento
  • La prima strategia è quella più intuitivamente semplice da capire, ma non sempre può essere messa in atto da subito. Quando non si può procedere direttamente con lo smantellamento rapido, entrano in gioco le altre due strategie, che hanno lo scopo di “preparare” l’impianto dismesso ad essere smantellato.
  • Il Safestore consiste nel monitoraggio attivo dell’impianto e nella rimozione di tutti i materiali che possono provocare danni all’ambiente. Vengono dunque portate via tutte le componenti pericolose (in particolare il combustibile) e vengono smantellate le sezioni convenzionali dell’impianto (come la sala turbine). In questa fase viene mantenuta una vigilanza totale e costante sull’impianto.
  • Il Tombamento è invece un’operazione che viene messa in atto nel caso di incidenti gravi (pensiamo a Chernobyl, che è stato tombato per un trentennio, fino alla costruzione del nuovo sarcofago (https://www.francescagorzanelli.it/chernobyl/new-safe-confinement-il-nuovo-sarcofago-di-chernobyl/), che permetterà lo smantellamento del reattore) o quando la radioattività residua comporterebbe dei rischi per gli addetti ai lavori (poteva capitare con i vecchi reattori a grafite): in quei casi si chiude l’impianto e lo si mantiene sigillato con una vigilanza minima per alcuni decenni, in attesa che la radioattività sia calata ad un livello tale da consentire lo smantellamento con personale umano. Una volta che il Safestore è stato completato o che il periodo di tombamento è trascorso, si può procedere allo smantellamento rapido. In questa fase si andrà letteralmente a smontare l’impianto, con i vari pezzi che potranno prendere tre strade differenti: riciclaggio, smaltimento in discarica tradizionale, smaltimento in deposito geologico (quest’ultima opzione sarebbe riservata solo ai rifiuti radioattivi di alto livello, le cosiddette “scorie”, ma molti Stati per motivi economici e pratici le tengono assieme ai rifiuti di livello intermedio).
Tutte le operazioni avvengono (a seconda dei regolamenti nazionali) solo dopo l’allontanamento del combustibile esausto: per motivi di sicurezza, infatti, si vuole evitare che la movimentazione di qualsiasi componente possa generare danni collaterali. Questa operazione avviene solo dopo alcuni anni (due o tre) dallo spegnimento del reattore, dal momento che all’inizio il combustibile esausto è troppo caldo per essere spostato tramite cask a secco, per via della presenza di molti isotopi a vita breve, e quindi deve essere lasciato dentro le piscine a raffreddare.
Una volta che il combustibile è stato rimosso, qual è l’ordine con cui le diverse parti di una centrale vengono smantellate? Si comincia dalle componenti più “semplici” ed “inutili”, lasciando sempre intatti tutti i sistemi di sicurezza e di controllo, come le ventole per il ricambio dell’aria e i sistemi di raccolta delle acque: se l’impianto è stato chiuso, non serviranno più né la presa d’acqua né i sistemi di iniezione dell’acido borico. Poi si possono togliere le turbine (se non sono già state smantellate in precedenza), che saranno mandate tipicamente verso una struttura per il riciclo dei materiali. Mano a mano che si procede verso l’edificio del reattore, si arriva al “nocciolo” della questione, ovvero alle componenti contaminate ed attivate.
I generatori di vapore sono generalmente coperti internamente di incrostazioni radioattive, che vanno rimosse tramite sistemi di lavaggio decontaminante: una volta fatto questo, si può procedere con lo smaltimento o con l’invio verso gli impianti di riciclaggio.
Il recipiente pressurizzato è il principale grattacapo: è pesantemente attivato (reso radioattivo dai neutroni liberati dalle fissioni), e soprattutto è grosso, e tagliarlo genera una grande quantità di rifiuti secondari (truciolato attivato). Fortunatamente queste operazioni avvengono tipicamente alla fine, quindi da un lato si ha un maggiore spazio per operare (dal momento che è già stato smantellato tutto il resto) e dall’altro il tempo trascorso dallo spegnimento del reattore avrà fatto calare sensibilmente la radioattività.
Una volta rimosso il vessel, il lavoro non è ancora finito: occorre controllare tutte le superfici, affinché non siano contaminate, e ripulirle. Se rimangono tracce di contaminazione (o di attivazione, come nel caso del cemento a contatto con il reattore) bisogna rimuoverle meccanicamente.
Sempre muovendosi a ritroso, le diverse aree vengono infine definite “libere da contaminazione”, il che significa che ci si potrà entrare senza dispositivi di protezione; le ultime parti della centrale che vengono smantellate sono quelle che hanno a che fare con la sicurezza, ovvero i sistemi di ventilazione e di raccolta delle acque.
Una volta che questo è stato fatto, l’edificio potrà essere comodamente smontato e demolito come un qualsiasi impianto industriale.
Se nell’area restano dei residui radioattivi, il sito sarà classificato come “brown field” (al pari di molti siti che ospitavano impianti chimici, siderurgici o di altra natura), e conserverà le licenze per il comparto nucleare (in altre parole, sarà possibile costruire un nuovo impianto sullo stesso terreno). Se invece l’area viene completamente ripulita il sito sarà classificato come “green field” e tornerà ad essere ad accesso libero per il pubblico (ma in caso venga approvata la costruzione di un nuovo impianto nucleare, l’iter burocratico dovrà ripartire da zero).
La scelta di lasciare una centrale dismessa allo stato di brown field o di riportarla a green field è del tutto economica e politica, non ci sono impedimenti tecnici che impediscano di portare a termine la dismissione fino a restituire completamente un sito alla natura. Ad oggi sono circa una trentina le centrali già totalmente smantellate, tra cui Yankee Rowe, il “gemello” di Trino Vercellese»

Ringrazio per questo articolo:

  • Enrico D’Urso, laureato in Fisica Biomedica presso l’Università degli Studi di Torino. Ha basato i suoi studi sul nucleare (in tutte le sue declinazioni, dal medicale alla produzione elettrica) e la radioprotezione. Enrico è un divulgatore scientifico che tratta soprattutto argomenti ambientali e nucleari, curatore della pagina Facebook “La Fisica che non ti aspetti” (https://www.facebook.com/lafisicachenontiaspetti)
  • Luca Romano, laureato in Fisica Teorica presso l’Università degli Studi di Torino, master in Giornalismo Scientifico e Comunicazione della Scienza presso lo IUSS di Ferrara. Curatore principale della pagina Facebook “l’ Avvocato dell’Atomo” (https://www.facebook.com/AvvocatoAtomico), Luca si occupa di energia nucleare collaborando anche con enti politici e associazioni ambientaliste.
Fonti:
Le foto di questo articolo sono di proprietà di Sogin e sono disponibili nel sito web che vi ho indicato nell’articolo.
In ordine di apparizione:
la centrale nucleare di Caorso,
traporto del combustibile irraggiato da Trino alla Francia,
rimozione boiler da Latina,
smantellamento alternatore a Garigliano,
smantellamento e decontaminazione dei componenti dell’edificio turbina della centrale nucleare di Caorso.