Questa è la storia di una coppia ordinaria della Pripyat sovietica, la cui vita si è trasformata in un incubo subito dopo l’esplosione alla centrale nucleare Lenin.
“Gli ultimi diciassette giorni in cui mio marito ha vissuto dopo l’incidente, ero accanto a lui, ignara dell’irradiazione che stava colpendo me e il nostro bambino non ancora nato.”
L’intera vita di Lyudmila è chiusa in quei terribili giorni dopo l’incidente di Chernobyl. Oggi è la vedova di Vasily Ignatenko, che ha ricevuto l’Ordine della Bandiera Rossa e l’Ordine dell’Ucraina “Per il coraggio”. È morto il 13 Maggio 1986, ma lei lo vede ancora entrare dalla porta di casa mentre le dice “Sei così bella, amore!”.
Lyudmila è nata nella regione di Ivano-Frankivsk sulle rive del Dnestr. Arrivò a Pripyat per caso in quanto fu mandata lì come studente eccellente subito dopo essersi diplomata alla scuola di cucina di Burshta. Aveva solo diciassette anni quando trovò lavoro come pasticciera nella centrale nucleare di Chernobyl.
Vasily Ignatenko era originario del villaggio di Spirizhie, nella regione di Gomel, in Bielorussia. Subito dopo aver prestato servizio nell’esercito, venne a conoscenza della meravigliosa città di Pripyat e decise di andarvi a vivere, lavorando come vigile del fuoco.
La prima volta che si incontrarono fu in un dormitorio, presentati da amici. Luda non dimenticherà mai quel momento. Si frequentarono per tre anni, poi andarono a vivere insieme in un nuovo appartamento per i vigili del fuoco. Erano molto orgogliosi del loro spazioso appartamento: la caserma dei pompieri di Pripyat e la centrale nucleare erano visibili dalla finestra. Il matrimonio fu celebrato due volte: prima in Bielorussia, presso i genitori di Vasya e poi a casa di Luda. Fu tutto magnifico, ma c’era una cosa che imbarazzava la sposa, ovvero che il velo doveva essere indossato due volte. “Questo è un cattivo presagio, ma i miei genitori mi hanno persuasa. Oggi però sono grata per il fatto di avere ricordi così felici. Vasya non è più qui, ma il ricordo è vivo.”
Oggi Luda ricorda che quel presagio del disastro imminente non fu l’unico allora. Solo due settimane prima dell’incidente, Lyudmila smarrì la fede nuziale, che non ha mai più ritrovato. Subito dopo, è accaduto un altro evento. A volte incontrava una vecchia donna che veniva da un villaggio vicino per prendere in dono il cibo avanzato alla mensa da dare ai suoi animali domestici. Un giorno questa vecchia prese la sua mano per leggergliela e improvvisamente cambiò in volto: “Tuo marito lavora con grandi macchine rosse. Ma tu, figlia, non vivrai a lungo con lui. Il suo destino è breve, molto breve. Sì, e hai un destino spiacevole.” Luda racconta che ritrasse la mano con grande ansia e quella sera raccontò tutto al marito, il quale la consolò ridendo di questa inezia. “Vasja era molto affettuoso con me. Non mi ha mai lasciata uscire di casa senza prima aggiustarmi la sciarpa e il cappello, si preoccupava che non prendessi freddo. Si è sempre preso cura di me e del mio aspetto, voleva che fossi la più bella. Aveva un odore così affidabile che mi sentivo protetta, come dietro un muro di pietra. E mi sembrava che mentre era con me non potesse accadere nulla di male. Il 13 di Marzo era il suo 25simo compleanno e al brindisi scherzò con gli amici ripensando alla vecchia indovina “A 25 anni finisce la mia vita.” Lui rideva, ma gli amici gli dissero “Non dire queste cose, Vasya.” Allora ero già incinta ed eravamo impazienti per questa gravidanza, perchè una precedente era fallita.”
Del 26 Aprile Luda ricorda tutto. Vasya aveva preso il giorno libero perchè sarebbero dovuti andare dai suoi genitori a Gomel. Lei a mezzanotte era ancora sveglia perchè stava cuocendo una vestaglia (ndr: all’epoca i panni si lavavano immergendoli in pentole con acqua portata a ebollizione). All’1,26 scoppiò un incendio alla centrale nucleare e Vasya dovette correre al lavoro. La baciò dicendole “Vai a letto, farò solo 4 ore, c’è un incendio alla centrale”. Fu l’ultima volta che vide suo marito a casa. Luda quella notte non dormì. Guardò dalla finestra ciò che succedeva alla centrale. Camion dei pompieri che andavano e venivano e sirene assordanti. Lui le racconterà: “Abbiamo camminato sul tetto della centrale, era coperto di bitume ed era molle come la pece.” Gettavano giù a pedate pezzi di grafite. Erano partiti così come erano, in camicia, senza indossare la tuta protettiva. Non li aveva avvertiti nessuno, li avevano chiamati come per un normale incendio. Alle sette del mattino il marito non era ancora rincasato così decise di andarlo a cercare. Le dissero che era in ospedale. Arrivata all’ospedale non volevano lasciarla entrare, tanto che si aggrappò disperata alla divisa di una infermiera che, impietosita, la lasciò passare. Entrata nella stanza, racconta:
“Tutto il suo viso, le sue mani erano gonfie, innaturali. Mi sono precipitata da lui. – “Che cosa è successo?” – “Abbiamo inalato un bitume in fiamme, avvelenato dai gas.” -“Cosa posso portarti, Vassenka?” Un dottore di passaggio si accigliò: -“Hanno bisogno di più latte, un barattolo da tre litri per tutti, hanno un avvelenamento da gas.” Nel reparto c’erano i sei pompieri che erano saliti fino in cima ai resti del reattore: Vasya, Viktor Kibenok, Volodya Pravik, Kolya Vashchuk, Volodya Tishura, Kolya Titenok. Alcuni parenti partirono con una UAZ e andarono in un villaggio per comprare diversi barattoli da tre litri di latte dalle babushkas. Quando tornarono all’ospedale, non gli fu più permesso di visitare i loro parenti. Vasya attraverso la finestra mi disse: -“Cerca di uscire di qui il prima possibile.” Ancora non capivo: -“Come posso lasciarti? Sai, hanno detto che non puoi né chiamare, né inviare un telegramma, la posta è chiusa.” La città era già chiusa. -“Non ho nulla di serio, non preoccuparti. Mi porteranno a Mosca.” Stavano già girando camionette per la città, che lavavano le strade con schiuma bianca. Il 27 aprile, dopo pranzo, i medici sono venuti da noi e hanno confermato che i nostri mariti sarebbero stato mandati a Mosca e avevano bisogno di vestiti. Il fatto è che hanno lasciato l’ospedale senza vestiti, avvolti nelle lenzuola. Siamo subito corse a casa per prendere vestiti, biancheria, scarpe. Non si trattava quindi di alcun tipo di irradiazione: ci avevano assicurato che si trattava di avvelenamento da gas. Quando siamo tornate, i nostri mariti non erano più in ospedale. Non sapevo cosa fare. Dopotutto, la città era chiusa, i treni alla stazione non si fermavano più. Quel giorno iniziò l’evacuazione. C’erano colonne di autobus. Alla gente è stato detto che sarebbero stati evacuati solo per alcuni giorni, che tutti avrebbero vissuto nelle tende nella foresta. E la gente usciva, come per andare a un picnic. C’era chi prendeva addirittura la chitarra per il picnic, lasciando i gatti a casa. In una parola, non c’era il panico. Pertanto, mi è sembrato che solo io avessi un dolore così grande, che solo i pompieri fossero stati avvelenati, e il resto della gente stava bene. Non sospettavo della gravità dell’incidente.”
Luda partì per Mosca con il suocero, nonostante avesse tutti contro. Era incinta e nessuno voleva che si stressasse o che si mettesse in pericolo. Arrivata all’ospedale di Mosca i medici non la volevano fare entrare nella stanza del marito perchè era troppo pericoloso. Lei insisteva disperatamente, non le sembrava possibile che fosse pericoloso assistere il marito, finchè una dottoressa le chiese “Sei incinta?” “No”. E questa bugia le permise di entrare nella stanza. Un medico le spiegò che il marito aveva subito un’irradiazione di 1° grado e che non sarebbe sopravvissuto. Lei non ne sapeva niente di radiazioni, non credeva a ciò che i medici le stavano dicendo. La città era stata evacuata per tre giorni, così avevano detto agli altoparlanti, quindi anche il marito sarebbe guarito in breve. “Per un po’ ho vissuto con la speranza che a Vasya sarebbe andata bene. Era stato programmato un trapianto di midollo osseo per il 2 maggio. Chiamarono tutti i suoi parenti – madre, due sorelle, un fratello- per determinare chi, per parametri medici, era più adatto come donatore. Le analisi rilevarono che il miglior donatore era la sorella di 12 anni, Natasha. Ma lui rifiutò categoricamente: “Non insistete, non permetterò di rovinare la vita a un bambino!” I medici spiegarono a Vasily che in un corpo sano il midollo osseo si ripristina rapidamente. Alla fine, mia sorella maggiore, che era un medico d’urgenza, riuscì a convincere mio marito. L’operazione fu effettuata da uno straordinario specialista americano di trapianti di midollo osseo, dottor Gail. Ma Vasily rigettò il midollo e sua sorella non si riprese. Oggi la sorella di Vasily è invalida, il suo metabolismo è completamente disturbato, le viene somministrata una trasfusione di sangue ogni settimana. Vidi come stava cambiando Vasya: i suoi capelli cadevano, i suoi polmoni erano gonfi, il suo petto si alzava sempre più in alto ogni giorno, i suoi reni si rifiutavano di lavorare, i suoi organi interni cominciavano a decomporsi. Sono comparse sempre più ustioni, la pelle delle braccia e delle gambe si staccava. Poi è stato trasferito nella camera a pressione e io insieme a lui. Non mi allontanai da lui mai nemmeno per un minuto. Le infermiere non si avvicinarono più a Vasya. Ha sofferto così tanto, ogni movimento creava una ferita. Dovevo riposizionare il lenzuolo, perché ogni piega diventava una causa di tormento. Un giorno rigirai Vasya nel letto e la sua pelle rimase tra le mie braccia. Urlava dal dolore, era tutto gonfio, la pelle diventava blu, le ferite si incrinavano, il sangue trasudava. Negli ultimi giorni è stato molto difficile: ha vomitato pezzi di polmoni, il fegato è venuto fuori . Ora capisco le infermiere: sapevano che non si poteva fare nulla per aiutarlo. Inoltre, non mi rendevo conto del pericolo che emanava da lui, continuando a sperare ancora. Non sapevo come avrei vissuto senza Vasya, cosa mi sarebbe successo.”
Il 9 Maggio Luda scappò fuori dalla camera per non farsi vedere dal marito mentre piangeva. Il medico americano la abbracciò in modo paterno, consolandola, perchè lui sapeva che non c’era più nulla da fare. Lei, tra le lacrime, confessò di essere incinta. Un’infermiera le urlò che era una pazza, che erano giorni che sedeva al giaciglio di un reattore nucleare e che ormai aveva ucciso se stessa ed anche il bambino che portava in grembo. Suo marito aveva ricevuto una dose di 1600 Roentgen, quando la dose mortale è di 400. Luda in quei giorni sognava ad occhi aperti con lui: “Se nasce femmina la chiameremo Natasha” mi diceva Vasya “Se nasce maschio lo chiameremo Vasya. ” E io scherzavo: “Perchè avrei bisogno di due Vasya? E come vi distinguerò?” Non avevo capito che lui sapeva di essere condannato e voleva lasciare un ricordo di sè in questa vita. Non l’ho abbandonato mai, fino al 13 Maggio. Quella mattina andai al funerale del marito di Tanya. Lei mi aveva tanto pregato di andare, perchè senza di me non ce l’avrebbe fatta. Sull’autobus tutte le donne avevano il fazzoletto nero in testa. Io mi rifiutai di indossarlo. Finito il funerale tornai dal mio Vasya. Era morto alle 11. L’infermiera mi disse che mi aveva tanto chiamata, fino all’ultimo respiro. Indossai il fazzoletto nero.”
“Preghiera per Chernobyl”-Svetlana Aleksievich
Il figlio di Luda e Vasya sopravvisse solo quattro ore dopo la nascita.